
di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
C’è una domanda che, nel silenzio apparente delle reti, attraversa ormai ogni discussione sul futuro dell’Europa: chi controlla davvero i nostri dati? Non è un interrogativo accademico, ma una questione concreta che riguarda la libertà, la sicurezza e perfino l’autonomia economica del continente. Ogni volta che un cittadino, un’impresa o un ente pubblico carica un file su un server, deposita — consapevolmente o no — una parte del proprio destino in mani spesso lontane, sotto giurisdizioni straniere e con regole che non sempre coincidono con quelle europee.
Per anni abbiamo considerato il cloud una soluzione tecnologica neutrale, quasi una comodità: spazio infinito, accesso immediato, costi contenuti. Ma oggi diventa chiaro che il cloud è anche geopolitica. In un mondo attraversato da nuove tensioni, da guerre commerciali e da leadership sempre più assertive, i dati sono la materia prima del potere. Chi li custodisce, li controlla. E chi li controlla, può influenzare economie, mercati e decisioni politiche.
Basta immaginare uno scenario — tutt’altro che impossibile — in cui gli equilibri transatlantici si incrinino: un’America di nuovo protezionista, magari guidata da un’amministrazione Trump ostile all’Unione europea, potrebbe decidere di usare il controllo delle grandi infrastrutture digitali come leva economica. Non servirebbero sanzioni o dazi: basterebbe limitare l’accesso a certi servizi cloud per mettere in difficoltà aziende, istituzioni e interi settori produttivi.
Ecco perché la parola “sovranità digitale” non è più un esercizio retorico, ma un obiettivo politico. Proteggere i dati non significa solo garantire la privacy dei cittadini, ma difendere le competenze, i brevetti, le formule industriali, gli algoritmi e le reti strategiche che rappresentano il vero capitale dell’Europa.
Il problema è che, sul terreno del cloud, partiamo in svantaggio. Amazon, Microsoft e Google dominano il mercato europeo con una quota che sfiora il 70%. I loro investimenti sono impressionanti: fino a 10 miliardi di dollari a trimestre per costruire data center e potenziare infrastrutture legate all’intelligenza artificiale. Nessun operatore europeo può reggere un simile ritmo di spesa. I colossi continentali — Sap, Deutsche Telekom, OVHcloud, Orange, Tim — crescono, ma restano confinati a un ruolo secondario: insieme, valgono appena il 15% del mercato.
Eppure, la partita non è chiusa. Perché l’Europa, se vuole, può giocare su un altro campo: quello della fiducia e delle regole. I provider europei hanno dalla loro parte la prossimità territoriale, la conformità alle leggi sulla protezione dei dati (il Gdpr è il gold standard mondiale) e la capacità di costruire progetti cooperativi, come Gaia-X, che puntano a un ecosistema digitale fondato sulla trasparenza, sull’interoperabilità e sulla condivisione. È una strada più lenta, ma forse più solida: un modello di sviluppo basato non sulla forza finanziaria, ma sulla credibilità.
La vera sfida, oggi, è trasformare la sovranità digitale in una politica industriale europea, capace di sostenere l’innovazione e, al tempo stesso, di proteggere le imprese. Perché i dati non sono solo numeri: sono valore, conoscenza, intelligenza collettiva. Se finiscono in mani sbagliate, non perdiamo soltanto privacy, ma anche competitività e libertà economica.
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