Il governo punta a introdurre, con la prossima legge di bilancio, una nuova tassa sugli extraprofitti bancari in grado di garantire un gettito tra 2,5 e 3 miliardi di euro, a fronte di 46 miliardi di utili complessivi realizzati dal settore nel 2024. La nuova imposta, a carattere temporaneo per il biennio 2025-2026, colpirebbe la quota di utili eccedente la media triennale 2020-2022, individuando così la componente effettivamente “straordinaria” derivante dal rialzo dei tassi d’interesse deciso dalla Bce. La base imponibile includerebbe margini d’interesse e commissioni nette, e non soltanto il differenziale di tasso, con un’aliquota compresa tra il 4% e il 6%, applicata in forma progressiva in base alla dimensione e alla redditività degli istituti.
È quanto emerge da un’analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo cui la misura si baserebbe su una struttura più solida e tecnicamente coerente rispetto al prelievo del 2023, rivelatosi inefficace e pressoché nullo nei risultati fiscali.
Secondo le simulazioni di Unimpresa, il nuovo prelievo garantirebbe al Tesoro un’incidenza media pari al 5-6% degli utili bancari annuali, senza intaccare i coefficienti patrimoniali (Cet1) né alterare la capacità di erogazione del credito. Gli istituti maggiori – Intesa Sanpaolo, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, Bper e Banco Bpm – contribuirebbero per oltre due terzi del gettito complessivo, mentre le banche territoriali e cooperative sarebbero in gran parte escluse. Diversamente dalla tassa varata nel 2023, che prevedeva un prelievo del 40% sull’aumento del margine d’interesse e un tetto massimo dello 0,1% delle attività ponderate per il rischio, la nuova formulazione avrebbe una base più ampia, un’aliquota più bassa e un impatto più prevedibile. I versamenti sarebbero effettuati in due rate semestrali, con acconto e conguaglio, e senza possibilità di compensazione con riserve di capitale.
Secondo il Centro studi di Unimpresa, dopo il fallimento della misura sulle banche varata nel 2023, il governo starebbe lavorando a una nuova versione del prelievo, ispirata al modello spagnolo, con l’obiettivo di renderla più equa, sostenibile e tecnicamente efficace. L’intento è duplice: da un lato garantire un contributo straordinario da parte del settore bancario, che nel 2024 ha realizzato utili complessivi per circa 46 miliardi di euro; dall’altro reperire risorse — stimate tra 2,5 e 3 miliardi — da destinare a misure sociali e di sostegno al credito. La precedente imposta, introdotta nell’agosto 2023, si era rivelata un esperimento fallimentare. Il prelievo del 40% sull’aumento del margine d’interesse rispetto agli anni precedenti aveva generato forti turbolenze sui mercati, con una perdita di quasi il 9% in Borsa per i principali istituti di credito italiani in un solo giorno. Il difetto principale della norma consisteva nel suo carattere punitivo e nella base imponibile eccessivamente rigida: veniva infatti tassata la crescita dei ricavi da interessi senza considerare l’aumento dei costi di raccolta, quindi senza misurare il reale incremento degli utili. L’imposta, inoltre, fu rapidamente modificata, con l’introduzione di un tetto massimo pari allo 0,1% delle attività ponderate per il rischio e con la possibilità, per le banche, di evitare il versamento destinando l’importo equivalente a riserve di capitale. In questo modo, l’impatto sui conti pubblici fu pressoché nullo.
La nuova ipotesi di intervento, in discussione per il 2025, presenta invece caratteristiche molto diverse. La base imponibile non sarebbe più limitata al margine d’interesse, ma comprenderebbe l’insieme dei profitti derivanti da interessi e commissioni, calcolati rispetto a una media triennale (2020-2022) che consentirebbe di isolare la componente “straordinaria” degli utili. L’aliquota, compresa tra il 4% e il 6%, sarebbe di gran lunga inferiore rispetto a quella del 2023, con un effetto meno distorsivo e più sostenibile. Inoltre, la misura potrebbe essere progressiva: le grandi banche sistemiche sopporterebbero la quota maggiore del contributo, mentre gli istituti di dimensioni minori e a vocazione territoriale ne sarebbero in parte esentati. Altro elemento di differenziazione riguarda la struttura e la finalità del prelievo. La nuova tassa avrebbe durata biennale (2025–2026), non sarebbe deducibile ai fini Ires e sarebbe versata in due rate, una semestrale di acconto e una finale di conguaglio. Non inciderebbe sul capitale regolamentare delle banche né sui coefficienti patrimoniali, evitando così effetti negativi sulla solidità del sistema e sulla capacità di erogare credito.
«Dal punto di vista politico ed economico, la misura verrebbe presentata non come un atto punitivo ma come un contributo straordinario di solidarietà da parte di un settore che ha beneficiato ampiamente della politica monetaria restrittiva della Banca centrale europea. Le risorse raccolte potrebbero finanziare interventi mirati a favore di famiglie, mutuatari e piccole e medie imprese, riequilibrando gli effetti del ciclo dei tassi e contribuendo alla stabilità complessiva del sistema finanziario. In sintesi, mentre la tassa del 2023 fu percepita come un provvedimento improvvisato e populista, la nuova impostazione punta a un approccio calibrato, realistico e temporaneo, in grado di garantire un gettito certo senza compromettere la redditività e la competitività delle banche italiane» spiegano gli analisti del Centro studi di Unimpresa.
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