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Diritto al lavoro: sì o no?

Lavorare e’ un diritto o una concessione di chicchessia? La domanda può apparire banale, e vi confido che io stesso la ritengo tale. E allora perché parlarne? Qualcuno ha affermato di recente che il lavoro non è un diritto, bensì qualcosa d’altro. E non si riferiva alla dimensione del dovere che pure attiene a chi oggi ha la fortuna d’essere impiegato in qualche attività lavorativa. A dire il vero non si capisce a cosa si riferisse, e nemmeno mi pongo il problema di comprenderlo ora. Basta tuttavia l’evidente poca chiarezza a rendere utile qualche precisazione. La Costituzione al primo articolo così recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.  Basterebbe questo a fugare ogni dubbio e ad invitare ad una maggiore prudenza quando si discetta di tale materia. Anche la Dottrina sociale della Chiesa richiama in modo inequivocabile il lavoro come diritto, arrivando a definirlo come realizzante della dignità della persona. Così Paolo Longobardi, presidente di Unimpresa, ha sempre difeso il lavoro e i lavoratori in ogni intervento sull’argomento, auspicando che vengano favorite azioni a sostegno dell’occupazione. Il 13 settembre scorso, per esempio, d’accordo con il presidente di Confindustria Squinzi, ha lanciato un appello al premier Mario Monti e agli altri ministri tecnici, chiedendo un pacchetto di misure drastiche per consentire alle imprese di tornare a crescere, a investire e quindi a creare posti di lavoro.  A questo punto un dubbio mi assale. Vuoi vedere che si sta cercando di scardinare una delle poche certezze conservate fino ad oggi? A ben vedere il dubbio parrebbe fondato. Oggi tra i giovani scegliere un lavoro e’ diventato un lusso che fa apparire ingenuo persino chi lo desidera, peggio ancora, trovarne uno relega sovente il prestatore d’opera nella condizione di sudditanza psicologica per cui deve sentirsi in obbligo, e di conseguenza tacere,  anche di fronte ad un evidente e disonesto sfruttamento. E il bello sta nel fatto che le “prediche” sul doversi accontentare di qualunque lavoro a compenso minimo, alla rassegnazione della nuova emigrazione, a dover sostenere costi che superano gli introiti, vengono generalmente da chi non sa neppure cosa vuol dire fare la fila ad una cassa del supermercato. Qualcuno dovrebbe spiegare perché nel morire di fame comunque, si debba morire pure stanchi e umiliati. Per concludere mi vengono in mente le parole di Benedetto XVI “il lavoro non è solo strumento di profitto individuale, ma momento in cui esprimere le proprie capacità”. Il problema è averne l’occasione usufruendo del diritto al lavoro.

Alfonso D’Alessio

a.dalessio@unimpresa.it