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    Categories: Psicologia

Pandemia ed emergenza sanitaria: riflessioni su dinamiche attivate, riflessi psicologici ed affettivi.

di Emanuela Pallonetto

Il coronavirus è scoppiato in Italia verso la fine di Febbraio e fin da subito i telegiornali, le riviste, i social media hanno iniziato a parlare di questa tragedia con un linguaggio che faceva riferimento soprattutto alla guerra, al fronte, alle battaglie. Scegliere con cura le parole da dire (e soprattutto quelle da non dire) ci aiuta a descrivere e a comprendere meglio i fenomeni che ci troviamo ad affrontare. Per usare un esempio banale, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, si è riferito al coronavirus etichettandolo sempre come il “virus cinese”: per dirla come George Lakoff, Trump fa un intervento di framing inquadrando il virus e mettendone in evidenza la provenienza e quindi la responsabilità. Un frame, o una cornice, ha il potere di modificare totalmente il senso di qualcosa, assegnandogli una qualità (o anche un difetto). Con l’utilizzo di metafore, sintetizziamo in una formula linguistica appropriata un intero racconto, evocando delle immagini di grande intensità. Nel saggio di Susan Sontag, Malattia come metafora, viene illustrato come mai ci viene cosi facile sostenere un’emergenza sanitaria come fosse una guerra e non come un problema sociale e culturale: “La guerra è una delle poche attività umane a cui la gente non guarda in modo realistico; ovvero valutandone i costi o i risultati. In una guerra senza quartiere, le risorse vengono spese senza alcuna prudenza. La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo”.

Affrontare una pandemia non dovrebbe avere a che fare con il valore militare o con l’eroismo del singolo: è una questione di essere curati come si deve, di risorse sanitarie e anche di fortuna. Utilizzare la metafora della guerra e della sconfitta nel contesto della malattia, dice Sontag, significa attribuire al malato ( al medico o all’infermiere) sensi di colpa che possono ostacolare il suo processo verso la  guarigione (o la cura). In circostanze come queste il linguaggio militaresco non ha aiutato a trattare l’emergenza da un punto di vista psicologico né da un punto di vista individuale. Inoltre per la psicologia dell’emergenza le metafore belliche e la retorica dell’eroismo sono i principali fattori di rischio per sviluppare sindromi da burn-out e in alcuni casi mettere in atto comportamenti rischiosi durante il lavoro. 

In questa esperienza tutti abbiamo sentito di essere per l’altro rischio e protezione allo stesso istante e abbiamo vissuto (e stiamo vivendo) una rivoluzione in senso relazionale della soggettività: è come se tutti fossimo stati costretti ad abbandonare la certezza dell’io indipendente e sovrano. Ci siamo scontrati con il bisogno di elaborare delle perdite, sia fisiche –per chi ha affrontato la morte di un parente senza avere la possibilità di celebrarne i funerali- ma anche emotive –siamo stati costretti ad abbandonare le nostre abitudini da un giorno all’altro. 

La comparsa di sintomi ansiosi e di sofferenza psicologica, sia per i grandi che per i più piccini, è stata diffusissima e forse provava a comunicare un’esigenza più profonda: quella di entrare in contatto con le proprie paure. Abbiamo sentito tutti il bisogno di guardare da un’altra parte riempiendoci le giornate il più possibile mettendo in atto i meccanismi di rimozione e di spostamento rimuovendo la sensazione di angoscia considerandola solo come l’effetto del distanziamento sociale e della quarantena. 

Con questa crisi sanitaria è venuto sempre più fuori quanto siano importanti le relazioni (anche quelle irregolari, non riconosciute). La fase che stiamo vivendo ci mette di fronte a difficoltà aggiuntive, tuttavia sembriamo tutti (o quasi) accomunati dallo stesso desiderio: abbracciare e baciare qualcuno. Questo virus ha colpito tutti, ha tenuto lontane famiglie già divise e ne ha unito altre, ha inasprito conflitti già in atto e altri li ha messi in stand-by. Prendo in prestito le parole di un poeta, Roberto Roversi, che molti anni fa scrisse: “Per me in questo momento in cui tutto sembra uguale nel negativo e non c’è uomo o cosa che diano o propongano un fremito di verità e di speranza, credo che si debba ricucire dal basso (o dall’inizio) il proposito travolgente, totalizzante, di rifare il mondo. Rifarlo diverso, non nuovo. Importa poco che sia nuovo, importa che sia diverso, cambiato, stravolto rispetto ai vecchi schemi.”. 

È poetico vero? Anche il presente lo è: una poesia drammatica e tragica. Il futuro sarà la prosa, il dopo sarà sicuramente molto più duro del presente perché il presente sta sollecitando l’impegno di tutti. Il Governo continuerà ad emanare linee guida sanitarie ma saremo tutti chiamati a prendere decisioni, piccole e grandi, per riprenderci la nostra quotidianità, cercando un equilibrio tra la tolleranza del senso di pericolo, la serenità mentale e la necessità di lavorare per poter sopravvivere. E questo, oltre ad essere un argomento politico ed economico, è soprattutto un argomento psicologico.

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