
di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
Oggi, con l’apertura dei colloqui in Egitto, si entra in una fase cruciale che potrà segnare la direzione — positiva o negativa — del conflitto israelo-palestinese. Negli ultimi giorni la scena internazionale è stata attraversata da spunti diplomatici precisi: gli Stati Uniti hanno presentato una proposta in venti punti (il cosiddetto “piano Trump”) che Israele ha formalmente condiviso; più Paesi arabi, almeno ufficialmente, l’hanno fatto proprio.
Questa convergenza apparente – almeno sulla carta – crea un contesto in cui i negoziatori hanno oggi responsabilità straordinarie. Ma l’esperienza insegna che una proposta condivisa a livello di “dichiarazioni politiche” può naufragare se non si cura la gestione dei dettagli: chi rappresenta i palestinesi? Qual è il calendario pratico per il rilascio degli ostaggi? Come garantire il disarmo o almeno una coesistenza ordinata delle forze militari? Questi nodi sono stati esplicitamente segnalati da Hamas come elementi da negoziare, e non semplici dettagli riempitivi.
Da giorni si registra una compressione dei tempi da parte americana e israeliana: l’ostentata volontà di “negoziati brevi” è un chiaro messaggio alla controparte che la finestra di opportunità è stretta. Netanyahu stesso ha parlato apertamente di “limitare i colloqui a pochi giorni” pur mantenendo le sue linee rosse. Ciò produce due conseguenze: da un lato induce pressione sul gruppo palestinese affinché accetti tutto o quasi “a scatola chiusa”; dall’altro ridefinisce, implicitamente, chi detiene l’iniziativa diplomatica.
All’Italia e all’Europa questo scenario dovrebbe imporre uno sforzo di chiarezza e coerenza. Esserci senza farsi strumentalizzare: è una distinzione sottile, ma fondamentale. Il nostro spazio diplomatico non può ridursi al ruolo di spettatori o di meri sostenitori degli schemi che altri plasmano: dobbiamo insistere perché le trattative contemplino i reali interlocutori palestinesi, garantiscano la tutela dei civili e includano meccanismi di monitoraggio realmente indipendenti.
Unimpresa osserva con preoccupazione che, anche mentre si annuncia la sospensione (o la riduzione) dei bombardamenti su Gaza, il numero delle vittime continua a crescere ogni giorno. In questa fase, il rischio più grave è che la tregua venga usata come copertura per consolidare vantaggi territoriali o cambiare lo status quo “di fatto”. È un rischio concreto se l’equilibrio militare sul terreno non viene considerato — come dovrebbe — dentro le carte negoziali.
Dal punto di vista dell’economia reale, il nostro mondo non può permettersi un passo falso. Le tensioni internazionali già penalizzano l’accesso alle forniture, alimentano l’incertezza sui mercati energetici, compressione dei consumi, e la frammentazione delle filiere. L’alternativa non è attendere la pace “pronta”: è predisporre scenari flessibili per mitigare i danni e sostenere le attività – per chi riesce – attraverso reti d’impresa resilienti.
Ora più che mai serve che l’Europa si faccia parte attiva, con una voce unica e coerente, affinché non siano solo Washington, Tel Aviv e alcuni Paesi arabi a mettere le firme: la pace vera ha bisogno che tutti – anche chi sta lontano dal fronte – siano protagonisti con le proprie responsabilità. Non basta partecipare ai negoziati: occorre vigilare sulle conseguenze, senza arrendersi al fatalismo delle ricadute globali.
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