
di Paolo Longobardi, Presidente di Unimpresa
Ci sono vicende che si ripetono fino a diventare parabole nazionali. L’Ilva di Taranto è una di queste. Da trent’anni — una generazione intera — si discute del suo destino, tra promesse di rinascita, privatizzazioni fallite, piani industriali rimasti sulla carta. Intanto, la fabbrica continua a vivere in una sospensione indefinita, a metà tra la memoria di ciò che è stata e l’incertezza di ciò che potrebbe ancora essere.
L’Ilva non è solo un impianto siderurgico: è la metafora di un Paese che ha smarrito la fiducia nel proprio sistema produttivo. Ogni volta che si tenta di rilanciarla, riaffiora l’antico timore dell’industria pesante, l’idea che l’Italia non possa più permettersi la complessità del lavoro manifatturiero. È come se il ferro e l’acciaio appartenessero a un’altra epoca, a un’Italia che non riconosciamo più.
Eppure, dentro quella fabbrica, lavorano ancora quindicimila persone. Persone che ogni giorno entrano in uno stabilimento che fu il più grande d’Europa e che oggi combatte per sopravvivere. Non chiedono miracoli, ma un futuro possibile. Le due offerte sul tavolo per rilevarla – e le molte proposte parziali – non sono solo operazioni industriali: sono un banco di prova per capire se esiste ancora una volontà politica e civile di tenere in piedi un grande impianto produttivo nel Mezzogiorno, di difendere il lavoro, di credere nell’industria come motore di sviluppo.
Non serve evocare nostalgie del passato, né rifugiarsi in un ambientalismo di maniera. Serve una scelta di verità: l’Italia deve decidere che tipo di Paese vuole essere. Vuole limitarsi a vivere di turismo, di ospitalità, di rendite immobiliari? Oppure vuole tornare a produrre valore, a innovare, a trasformare la materia in ricchezza, a dare senso e dignità al lavoro? Non esiste sostenibilità senza produzione, così come non esiste giustizia sociale senza occupazione stabile. Per questo la vicenda dell’Ilva non è locale, ma nazionale. Riguarda il nostro rapporto con la modernità, con il progresso, con la fatica. Riguarda la coerenza tra ciò che proclamiamo e ciò che costruiamo.
Quando l’Italia smette di credere nella sua industria, smette anche di credere in se stessa. Taranto, oggi, è uno specchio nel quale il Paese deve trovare il coraggio di guardarsi. Perché se da quella fabbrica uscirà ancora acciaio, forse uscirà anche una nuova idea di futuro.
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