di Paolo Longobardi, Presidente onorario Unimpresa
Viviamo in tempi di straordinaria incertezza economica. E non è solo una questione di cicli o di variabili fuori controllo. Stavolta a spostare gli equilibri globali è stata una scelta politica netta, un cambio di rotta che arriva dagli Stati Uniti e che corre il rischio di rimettere in discussione le già fragili basi della ripresa globale. Il 2 aprile, l’amministrazione americana ha annunciato un pesante aumento dei dazi verso quasi tutti i partner commerciali, commisurando agli avanzi commerciali che quei Paesi registrano nei confronti degli Usa. Una mossa drastica, che segna una cesura rispetto alle politiche del passato e potrebbe innescare una nuova stagione di protezionismo. Gli effetti non si sono fatti attendere: i mercati finanziari internazionali hanno reagito con nervosismo, registrando cali marcati soprattutto nei settori più esposti al commercio mondiale. Il dollaro si è deprezzato, i prezzi di petrolio e gas naturale sono crollati in previsione di una domanda più debole, e gli investitori si sono rifugiati in asset più sicuri. A differenza di precedenti fasi turbolente, stavolta non c’è stata una “fuga verso il dollaro”, a testimonianza del grado di incertezza che circonda la decisione americana.
La risposta della Casa Bianca è stata repentina: il 9 aprile è arrivata una parziale marcia indietro, con una sospensione provvisoria dei dazi (esclusa la Cina) per tre mesi e un’aliquota temporaneamente ridotta al 10%. Un tentativo di placare i mercati, che ha avuto effetti solo parziali. La verità è che l’incertezza è già in circolo, e sta contagiando le aspettative di crescita. Per l’Italia, le proiezioni attuali indicano una crescita del PIL dello 0,6% nel 2025, dello 0,8% nel 2026 e dello 0,7% nel 2027. Una ripresa lenta, sostenuta in larga parte dai consumi delle famiglie, favoriti da un mercato del lavoro solido e dall’aumento delle retribuzioni. Ma sul fronte degli investimenti, il quadro è più sfumato: il PNRR spinge il comparto delle costruzioni, ma il venir meno dei bonus edilizi e la prudenza delle imprese, specie quelle di piccola dimensione, frenano il dinamismo. La manifattura mostra segnali di ripresa, ma resta sotto osservazione.
Non è tutto. Le esportazioni italiane – tornate a crescere nei primi mesi del 2025, anche per effetto dell’anticipo degli ordini prima dell’entrata in vigore dei dazi – sono destinate a risentire dell’inasprimento delle politiche commerciali. E se è vero che il posizionamento qualitativo e l’alto livello di competitività delle imprese italiane potrebbe ammortizzare l’impatto nel breve periodo, è altrettanto vero che nessun settore è immune quando l’incertezza diventa sistemica. L’inflazione al consumo è prevista intorno all’1,5% fino al 2026, con una possibile risalita al 2% nel 2027. Ma anche in questo caso, molto dipenderà dalle tensioni geopolitiche e dai riflessi sui prezzi dell’energia. A marzo l’inflazione è risalita al 2,1%, soprattutto a causa del caro energia. Il governo è intervenuto con un decreto “bollette” per arginare i rincari, ma non sarà una misura isolata a evitare effetti a catena.
C’è poi un altro dato, più strutturale, che va evidenziato: nel 2024 l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche si è più che dimezzato, grazie anche alla fine del Superbonus, il cui impatto sul debito, però, si fa ancora sentire. Il rapporto debito/PIL è leggermente salito, al 135,3%. In questo contesto, la politica monetaria europea gioca un ruolo essenziale: la Bce ha già tagliato i tassi di 50 punti base e i mercati si attendono ulteriori riduzioni. Il segnale è chiaro: sostenere il credito e provare a riattivare la domanda, in un’Europa ancora frenata dalla debolezza degli investimenti. Il problema è che tutte queste previsioni – numeri, percentuali, scenari – si reggono su un equilibrio fragile. Le stime oggi disponibili non includono gli effetti di possibili misure ritorsive da parte degli altri paesi né ulteriori shock sui mercati. E la storia recente ci insegna che le guerre commerciali non si vincono, si subiscono. A farne le spese è il commercio globale, la fiducia delle imprese, le scelte di investimento. L’Italia, in questo contesto, rischia di trovarsi ancora una volta esposta su più fronti: manifattura vulnerabile, export sensibile al clima internazionale, una crescita già bassa che può diventare stagnazione. E allora la domanda è: quanto può reggere la nostra economia se il mondo torna a chiudersi? E, soprattutto, quanto può fare da sola?
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