
di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
Non più emigranti, ma “lavoratori mobili”. È questa la formula con cui l’India cerca di riscrivere la storia della migrazione, proponendo al mondo un modello diverso: temporaneo, regolato, reversibile. Un modo per rispondere alle esigenze di economie sempre più affamate di manodopera — dall’Europa al Golfo Persico — senza riaprire le ferite politiche e culturali che il tema dell’immigrazione porta con sé.
L’intuizione, analizzata dal New York Times, è chiara: trasformare la mobilità del lavoro in uno strumento di sviluppo, e non in una fuga. Il governo di Nuova Delhi ha già siglato oltre venti accordi internazionali, immaginando un flusso di lavoratori che vanno, apprendono, guadagnano e poi tornano, riportando a casa competenze e risorse. È una strategia che si ispira più al commercio che alla migrazione: le persone diventano ponti economici tra Paesi, non presenze da “gestire” politicamente.
Eppure, dietro questa visione globale e razionale, restano domande aperte e umanissime. Perché il lavoro non è mai solo un contratto: è un progetto di vita. I giovani che lasciano l’India per l’Europa o il Medio Oriente cercano reddito, certo, ma anche libertà, riconoscimento, dignità. E spesso, una volta trovate, quelle radici nuove non si recidono più. La storia dei “gastarbeiter” tedeschi — i lavoratori ospiti arrivati negli anni ’50 e ’60 che poi rimasero, cambiando la fisionomia sociale della Germania — lo dimostra: le economie programmano partenze, ma la vita scrive ritorni imprevisti.
L’India, in fondo, è da sempre una terra di partenze e ritorni. Le sue diaspore hanno costruito ponti tra continenti, portando con sé cultura, innovazione, capitale umano. Oggi, con un’economia interna in crescita ma ancora segnata da disuguaglianze, il Paese cerca di trasformare quella vocazione in politica industriale. Ma la scommessa vera sarà sociale: riuscire a offrire a chi torna opportunità concrete, un contesto capace di valorizzare le competenze acquisite all’estero e di non disperderle in burocrazia e sottoutilizzo.
In un mondo che tende a chiudersi, l’India tenta di aprire una via di mezzo: una mobilità sostenibile, regolata e reciproca. È un esperimento che parla anche a noi, europei, troppo spesso intrappolati tra paura e necessità. Perché la mobilità del lavoro, se gestita con intelligenza e rispetto, può diventare una risorsa per tutti: per chi parte e per chi accoglie.
Ma per riuscirci serve qualcosa che nessuna legge può imporre: fiducia. Fiducia nel fatto che il futuro, per milioni di giovani, non debba per forza essere un altrove definitivo. Che si possa partire senza fuggire, tornare senza arretrare, e costruire una nuova idea di cittadinanza: più mobile, più globale, ma ancora profondamente umana.
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