di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
L’immigrazione non è un’emergenza. È una realtà strutturale, con cui l’Italia e l’Europa convivono da decenni. Una realtà complessa, fatta di numeri, storie, opportunità e problemi. Troppo spesso, però, il dibattito pubblico oscilla tra allarmismo e buonismo, tra chi la riduce a un fattore di insicurezza e chi la idealizza come soluzione a ogni squilibrio demografico. La verità, come sempre, sta nel mezzo. E si misura nei territori, nelle comunità, nei luoghi di lavoro. Lì dove l’integrazione non è uno slogan, ma una pratica quotidiana.
Le piccole e medie imprese italiane lo sanno bene. Senza clamore, da anni contribuiscono a costruire percorsi reali di inserimento sociale ed economico per migliaia di cittadini stranieri. Lo fanno assumendo, formando, stabilizzando. Lo fanno in settori cruciali – dall’agroalimentare all’edilizia, dalla logistica alla cura della persona – dove la manodopera straniera è spesso indispensabile. Lo fanno, soprattutto, in territori dove lo Stato fatica ad arrivare. Oltre 2 milioni di lavoratori stranieri contribuiscono oggi al sistema previdenziale italiano. Sono un pilastro silenzioso del nostro welfare. Eppure, troppo spesso, sono ancora considerati “ospiti” temporanei. Serve una svolta culturale e politica. Serve una nuova stagione di politiche migratorie che guardino all’inclusione come investimento, non come costo.
Sarebbe utile una riforma organica del sistema di ingresso per lavoro, che superi la logica delle quote e si basi su reali fabbisogni occupazionali. Le Pmi non possono aspettare mesi o anni per assumere legalmente un lavoratore extracomunitario. Serve semplificazione, flessibilità, programmazione.
Allo stesso tempo, è fondamentale rafforzare i percorsi di integrazione: corsi di lingua, formazione professionale, riconoscimento delle competenze pregresse, tutela dei diritti sul lavoro. La lotta al lavoro nero e allo sfruttamento non può essere affidata solo alla magistratura: deve diventare una priorità anche per la politica industriale. Legalità e inclusione vanno di pari passo. Ma c’è di più. L’immigrazione può essere anche una leva per il rilancio delle aree interne, per contrastare lo spopolamento dei borghi, per far ripartire attività artigianali e agricole altrimenti destinate alla chiusura. Lo vediamo ogni giorno: imprenditori stranieri aprono negozi, rilevano attività, creano occupazione. È un’Italia che cambia, spesso ignorata, ma concreta.
Tuttavia, l’integrazione non può essere demandata solo alle imprese. Servono politiche pubbliche coerenti, coordinate e stabili. Non si può chiedere alle pmi di supplire all’assenza dello Stato. Per questo, chiediamo un piano nazionale per l’inclusione attiva dei lavoratori stranieri, con risorse adeguate, partnership pubblico-private e il coinvolgimento diretto delle associazioni di categoria. L’Italia ha davanti a sé una scelta: gestire l’immigrazione o subirla. Noi scegliamo la prima strada. E siamo convinti che le piccole imprese siano il perno di qualsiasi strategia credibile. Perché è lì, nelle botteghe, nei laboratori, nei cantieri, che si costruisce – giorno dopo giorno – la vera integrazione. Quella che non fa rumore, ma genera valore. Sociale, economico, umano.
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