di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
C’è una dimensione della povertà che spesso resta silenziosa, nascosta tra le righe dei bollettini statistici e nell’orgoglio ferito di chi la subisce. È la povertà alimentare, una condizione che non riguarda solo l’indigenza estrema, ma sempre più spesso coinvolge quella che una volta veniva chiamata “classe media”: famiglie monoreddito, anziani soli, giovani precari, nuclei con figli piccoli. Sono loro oggi a dover fare i conti con un carrello della spesa sempre più costoso, che prosciuga redditi già fragili e impone rinunce che toccano il cuore della dignità quotidiana.
I recenti dati sull’inflazione lo confermano: la spesa alimentare continua a rappresentare una delle voci più critiche nei bilanci delle famiglie italiane. Tra il 2022 e il 2025, il prezzo del pane è aumentato del 21%, quello del latte del 18%, la pasta ha registrato un rincaro medio del 24%. Percentuali che possono sembrare marginali a chi osserva l’economia da lontano, ma che diventano insostenibili quando ogni centesimo conta. Aumenti che si sommano all’incremento delle bollette, dei carburanti, dei trasporti locali. E che spingono sempre più italiani – anche lavoratori dipendenti e autonomi – a rivolgersi ai banchi alimentari, alla Caritas, al terzo settore.
Sono oltre 3 milioni le persone che in Italia vivono in condizioni di povertà alimentare cronica. Ma dietro a queste cifre ci sono volti, storie, bambini che saltano la colazione, anziani che rinunciano alla frutta, genitori che fanno la fila in silenzio per un pacco viveri. È una ferita sociale profonda, che mina il senso stesso di coesione, che mette in discussione il patto implicito di solidarietà che dovrebbe legare lo Stato ai suoi cittadini.
E non è solo questione di congiuntura. La guerra in Ucraina, la crisi energetica, le tensioni geopolitiche hanno sicuramente avuto un impatto, ma la verità è che l’Italia paga un ritardo strutturale: nella redistribuzione del reddito, nell’efficacia delle politiche di contrasto alla povertà, nella capacità di calmierare i prezzi lungo la filiera agroalimentare.
Cosa fare, dunque? È necessario agire su più livelli.
In primo luogo, occorre rafforzare gli strumenti di supporto diretto alle famiglie in difficoltà. Serve un reddito alimentare garantito, almeno per i nuclei a rischio esclusione, che sia gestito in modo efficiente e con criteri chiari. In secondo luogo, è urgente intervenire sulla leva fiscale, riducendo temporaneamente l’IVA sui generi alimentari di prima necessità. Una misura selettiva, ma di grande impatto, che andrebbe a incidere immediatamente sui prezzi al consumo. Infine, va rilanciata una strategia di filiera: agricoltura, distribuzione e trasformazione devono dialogare e assumersi insieme una responsabilità sociale. La speculazione non può trovare terreno fertile proprio nei beni che garantiscono la sopravvivenza. L’intervento pubblico deve garantire trasparenza, tracciabilità, correttezza nelle dinamiche di prezzo.
Ma c’è anche un’altra responsabilità, meno visibile ma altrettanto essenziale: quella culturale. È tempo di restituire valore al cibo come bene comune. L’educazione alimentare, la lotta allo spreco, la promozione di stili di vita sobri non sono temi marginali, ma parte di una visione integrata della cittadinanza. Mangiare bene, in modo sano, accessibile e sostenibile, non è un privilegio da difendere, ma un diritto da estendere. In un Paese civile, il pane quotidiano non può essere un lusso. E l’economia, se vuole essere davvero al servizio della società, deve partire da qui: dalla capacità di garantire a tutti l’essenziale. Con dignità, con equità, con responsabilità.