di Maria Grazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
Una norma di legge che mi ha sorpreso è quella contenuta nella bozza di legge di bilancio per il 2025, che abbassa il tetto massimo delle retribuzioni dei dirigenti pubblici da 240mila euro a 160mila euro annui. A primo impatto, la misura potrebbe sembrare ragionevole in quanto invito alla sobrietà e a un maggior contenimento della spesa pubblica, ma in realtà solleva più di qualche perplessità.
Ridurre in maniera così drastica i compensi destinati a chi ricopre ruoli di responsabilità e alto profilo all’interno della macchina dello Stato rischia di compromettere l’attrattività di queste posizioni per i migliori professionisti disponibili sul mercato. La questione non è puramente economica né può essere ridotta a un tema di riduzione degli sprechi.
Quando si tratta di figure apicali, di dirigenti chiamati a prendere decisioni complesse, strategiche e spesso ad alto impatto, l’esperienza e le competenze che questi incarichi richiedono sono imprescindibili. Il pubblico si aspetta da loro una gestione efficiente e trasparente della cosa pubblica, una capacità di risolvere problemi difficili e di guidare interi settori verso una maggiore efficienza e qualità dei servizi. In altre parole, stiamo parlando di figure che devono possedere un know-how non solo elevato, ma in alcuni casi quasi insostituibile.
Se è vero, da un lato, che lo spirito della norma potrebbe essere quello di riequilibrare le disparità tra i salari pubblici e quelli privati, la realtà del mercato del lavoro, dall’altro lato, racconta una storia diversa. I professionisti di altissimo livello, quelli con una comprovata esperienza e le competenze necessarie per ricoprire incarichi di questa natura, difficilmente accetteranno di guidare strutture complesse e cariche di responsabilità a fronte di un compenso che non rispecchia né il peso né la delicatezza del ruolo.
Il rischio concreto è che le migliori risorse scelgano opportunità nel settore privato, dove i compensi per posizioni simili sono decisamente superiori. In definitiva, tale misura non solo potrebbe ridurre la capacità dello Stato di attrarre i migliori talenti, ma anche indebolire la qualità della leadership nelle istituzioni pubbliche.
In un momento in cui la pubblica amministrazione è chiamata a gestire fondi straordinari come quelli del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, e a rispondere a sfide inedite, è fondamentale disporre di dirigenti che siano in grado di operare con la massima competenza. Non si tratta di un privilegio da difendere, ma di un requisito essenziale per il buon funzionamento del sistema Paese. E, a questo punto, una domanda è legittima: possiamo permetterci, come nazione, di perdere quelle competenze cruciali che i migliori dirigenti potrebbero portare al servizio pubblico?
Altro aspetto da non sottovalutare è il legame tra retribuzione e indipendenza. Una retribuzione alta e proporzionata al grado di responsabilità non è solo un riconoscimento del valore del lavoro svolto, ma anche una garanzia di libertà e autonomia per chi occupa ruoli dirigenziali. È una forma di tutela contro il rischio di pressioni o indebite influenze esterne, che potrebbero minare l’imparzialità nelle decisioni. Un dirigente pubblico ben remunerato è un dirigente che può agire con maggiore serenità e libertà, orientato unicamente all’interesse collettivo, senza dover sottostare a logiche esterne o alla tentazione di cercare altrove compensi più adeguati. Inoltre, non si può dimenticare che il settore pubblico non è esente dalla competizione per il talento. Se non si offrono condizioni di lavoro allineate a quelle del mercato privato, si corre il rischio di alimentare una pericolosa spirale di impoverimento delle competenze a disposizione dello Stato. E questo, alla lunga, potrebbe tradursi in una pubblica amministrazione meno efficiente, meno competitiva e meno capace di rispondere ai bisogni dei cittadini.
Non si sta certo suggerendo che i dirigenti pubblici debbano godere di stipendi stellari, ma di compensi adeguati al ruolo e alle responsabilità che ricoprono. Il punto critico è quello di bilanciare la necessità di contenere i costi con l’esigenza di mantenere alta la qualità del personale pubblico. Il rischio è che la logica del risparmio immediato si traduca in un costo molto più elevato nel lungo periodo: un’amministrazione meno performante e incapace di attrarre le competenze necessarie per affrontare le sfide del futuro. La riduzione del tetto retributivo rischia di essere una scelta miope, frutto di una visione che non tiene conto delle dinamiche del mercato del lavoro e delle esigenze di un’amministrazione pubblica moderna ed efficiente. Se davvero si vuole rafforzare lo Stato e la sua capacità di risposta ai problemi complessi, è necessario dotarsi dei migliori professionisti, e questi non si attraggono abbassando le retribuzioni, ma piuttosto riconoscendo il loro valore attraverso compensi adeguati. La sfida della pubblica amministrazione del futuro si gioca, anche e soprattutto, sulla qualità delle sue risorse umane e sul merito. E quella qualità ha un prezzo, che non può essere sacrificato in nome di un risparmio di breve termine.
- Rassegna Stampa Estera 09.11.2024 - 9 Novembre 2024
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- Circolare – 08.11.2024 - 8 Novembre 2024