
di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
La caduta di El Fasher in Sudan, ultimo baluardo dell’esercito regolare dello stato africano, è l’ennesimo capitolo di una tragedia che il mondo sembra aver smesso di guardare. Le milizie delle RSF hanno conquistato la città lasciandosi dietro migliaia di morti, come confermato dalle Nazioni Unite. Le immagini satellitari diffuse sui social mostrano fosse comuni e villaggi rasi al suolo. Eppure, nonostante l’orrore, la notizia è scivolata via nel frastuono quotidiano, tra un aggiornamento di borsa e un post di intrattenimento.
Il Sudan brucia, ma non è solo. Bruciano Gaza e il sud di Israele, dove la guerra è ormai un grumo di disperazione senza tregua. Brucia l’Ucraina, dove da quasi tre anni il fronte si è trasformato in una ferita che non si rimargina, con intere generazioni consumate nella trincea dell’indifferenza globale. Brucia lo Yemen, dimenticato da tutti, dove il conflitto è diventato un sinonimo di fame. Brucia il Congo, con milioni di sfollati in un silenzio mediatico che pesa quanto le bombe. E brucia anche l’Europa, non nei suoi centri storici, ma nei confini della paura e del riarmo, dove la pace è tornata a essere un’ipotesi da negoziare e non un diritto garantito.
Mai, dalla fine della Seconda guerra mondiale, il pianeta ha contato così tante guerre simultanee: oltre cinquanta conflitti attivi, secondo i dati delle Nazioni Unite. Guerre che non si dichiarano più, ma si perpetuano. Guerre “a bassa intensità”, ma ad altissimo costo umano. Guerre che non producono vincitori, solo territori devastati, economie spezzate, infanzie negate.
E mentre il fuoco si estende, cresce anche un fenomeno inquietante: la normalizzazione della violenza. Le guerre non scuotono più le coscienze, ma si consumano come notizie di routine. Scorrono sui social in video di trenta secondi, tra commenti distratti e algoritmi che decidono cosa vedere e cosa ignorare. È come se l’umanità stesse imparando a convivere con la guerra come si convive con una malattia cronica: la si accetta, la si gestisce, ma non la si cura più.
Dietro ogni guerra c’è una stessa radice: la perdita del senso di comunità globale. Ogni Paese difende la propria sovranità come un fortino, dimenticando che la pace non si costruisce da soli. L’ONU lancia appelli, ma la diplomazia è diventata lenta, frammentata, impotente. Il multilateralismo che il presidente Mattarella definiva “garanzia di pace e cooperazione” rischia di ridursi a un rituale diplomatico privo di forza morale.
Eppure, la storia ci ha insegnato che la pace non nasce dalla rassegnazione, ma dalla volontà politica e civile. La pace si costruisce con le scuole, con il lavoro, con la cultura, con il rispetto dell’altro. Ogni volta che un bambino impara a leggere invece che a imbracciare un’arma, il mondo guadagna una speranza.
L’assedio di El Fasher è il simbolo di un mondo che ha perso la bussola. Ma può anche essere il punto di partenza per ritrovarla. Perché non basta indignarsi — bisogna scegliere di guardare. Guardare i volti, i nomi, le storie. E ricordare che dietro ogni guerra dimenticata c’è sempre un’umanità che chiede solo di vivere in pace.
La pace, oggi, non è un’utopia: è una necessità morale. Ma serve il coraggio di ridarle centralità, nelle agende politiche e nelle coscienze. Perché la guerra, quando diventa abitudine, è già vittoria dell’ingiustizia.
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