di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
Ci sono opere che, pur fatte di materia pesante e durevole, riescono a rendere più leggero il passaggio del tempo. Le sculture di Arnaldo Pomodoro appartengono a questa categoria: corpi solidi che perforano lo spazio urbano per restituire, a chi osserva, un’idea di umanità inquieta ma vitale.
La sua scomparsa ci lascia più poveri, culturalmente e simbolicamente; ragion per cui, dovremmo cogliere l’occasione per interrogarci sul ruolo dell’arte pubblica. Non solo come ornamento, ma come infrastruttura del pensiero collettivo. Pomodoro, come pochi, ha saputo trasformare piazze, cortili, sedi istituzionali e angoli di mondo in centri pulsanti di significato. Le sue “sfere con sfera”, visibili da New York ai Musei Vaticani, da Dublino a Tokyo, sono un atlante tridimensionale della nostra identità globale.
L’arte pubblica, specie quella capace di dialogare con i linguaggi internazionali, è un capitale sociale e simbolico di enorme valore. Ha una funzione educativa, genera attrattività, valorizza lo spazio, alimenta una filiera economica che va dalla produzione artistica al turismo culturale. In Italia ne abbiamo avuto straordinari esempi, ma troppo spesso la consideriamo come un sovrappiù estetico, una decorazione superflua rispetto alle priorità dell’intervento pubblico.
Eppure, laddove una scultura si staglia all’orizzonte urbano con equilibrio e tensione, cresce anche la qualità della convivenza. Un’opera d’arte non difende solo la bellezza, ma protegge l’idea stessa di comunità. Dove c’è arte pubblica che interroga, interpella, commuove, c’è anche maggiore attenzione al bene comune, al rispetto degli spazi condivisi. La scultura come presidio civile.
Mentre siamo attraversati da solitudini urbane, conflitti retorici e sfiducia reciproca, il segnale che arriva da artisti come Pomodoro è chiarissimo: c’è bisogno di creazione, non solo di costruzione. C’è bisogno di linguaggi che uniscano, che costringano lo sguardo a soffermarsi, che offrano profondità nella superficie delle nostre vite affrettate.
Da Milano a San Paolo, dalla Farnesina a Berkeley, Pomodoro ha fatto dell’arte una lingua franca. E ha dimostrato che la scultura può farsi ambasciatrice dell’Italia migliore: rigorosa ma sensibile, moderna ma radicata, austera ma inclusiva.
Un’impresa culturale, in senso pieno. Che parla anche a noi, che rappresentiamo le imprese. Perché ogni impresa, per essere davvero tale, ha bisogno di visione, di identità, di bellezza. E perché, oggi più che mai, c’è bisogno di arte che non stia solo nei musei, ma cammini fra le persone. L’arte pubblica globale non è un lusso: è un investimento. E come ogni investimento intelligente, produce rendimenti. Economici, ma soprattutto civili. L’opera di Pomodoro ne è la prova più luminosa.
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