di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
C’è una forma di violenza che non fa rumore, ma lascia un’eco lunga e sorda nella coscienza civile del Paese. È quella che si consuma ogni fine settimana nei campi da gioco di provincia, nelle palestre scolastiche, nei tornei amatoriali. Una violenza verbale, ma spesso anche fisica, che ha come vittime arbitri, dirigenti, allenatori e, più in generale, tutti coloro che provano a garantire il rispetto delle regole.
Il recente decreto che equipara gli arbitri ai pubblici ufficiali, prevedendo pene più severe per chi li aggredisce, è una norma giusta. Una risposta necessaria. Ma non può essere, da sola, risolutiva. Non possiamo illuderci che basti inasprire le pene per invertire un costume che affonda le sue radici in una degenerazione più profonda, culturale prima ancora che sportiva.
Siamo un Paese che troppo spesso confonde la competizione con l’aggressività, la passione con l’arroganza, il tifo con il fanatismo. E tutto questo si manifesta non solo tra i professionisti sotto le luci dei riflettori, ma — ed è questo il punto più allarmante — nei contesti educativi, nei campionati giovanili, nelle partite dei bambini. È lì, proprio lì, che il tessuto civile si sfilaccia.
Si assiste spesso, troppo spesso, a scene sconcertanti: genitori che urlano insulti a un giovane arbitro diciottenne, colpevole solo di aver fischiato un fallo. Padri e madri che, pur di vedere vincere il proprio figlio, si trasformano in ultrà, mettendo da parte il buon senso, l’esempio, la responsabilità educativa. È in quegli spalti che si gioca, oggi, la vera partita del futuro. E corriamo il rischio di perderla.
Per questo, più che il decreto in sé — che salutiamo con favore e senso di responsabilità —, ci interessa il messaggio che esso può veicolare. Un segnale, forte e chiaro, che lo Stato c’è. Che la figura dell’arbitro merita rispetto, come lo merita ogni ruolo esercitato in nome dell’equità e del regolamento. Ma serve di più. Serve un’opera capillare di ricostruzione culturale, un’alleanza tra scuola, sport, famiglie e istituzioni per rimettere al centro il rispetto delle regole, la funzione dell’autorità, l’educazione civica.
Un arbitro, a ben vedere, è una figura pedagogica: ricorda che ogni libertà ha un limite, che il merito non si misura solo con la vittoria, ma con il rispetto dell’altro, anche quando si sbaglia. E invece siamo arrivati al punto in cui un ragazzino preferisce non indossare la divisa nera per paura. Il segnale più preoccupante è questo.
Non c’è civiltà senza regole condivise. Non c’è sport senza rispetto. E non c’è futuro se i luoghi in cui educhiamo i nostri figli — il campo da calcio, il parquet, la pista d’atletica — diventano teatri di intolleranza. La repressione, da sola, non basta. Serve una rivoluzione gentile, ma ferma. Un nuovo patto educativo. E forse proprio da questo decreto può nascere l’occasione per rifondarlo.Perché un arbitro non è un nemico. È il custode di un gioco giusto. E rispettarlo significa rispettare, in fondo, noi stessi.
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