di Mariagrazia Lupo Albore, Direttore generale Unimpresa
In un’Italia troppo spesso piegata da narrazioni allarmistiche sull’immigrazione, c’è una rete silenziosa, ma vitale, che lavora quotidianamente all’integrazione. È fatta di piccoli comuni, borghi dell’entroterra, amministratori tenaci, associazioni locali e imprese radicate nel territorio. È l’Italia dell’accoglienza diffusa, quella che non compare nei titoli dei telegiornali, ma che rappresenta – oggi più che mai – un modello efficace di convivenza, coesione e sviluppo.
Il tema è tornato di stretta attualità in vista della Giornata Mondiale del Rifugiato, che si celebrerà il 20 giugno. Un’occasione per fare il punto su una realtà spesso ignorata: l’accoglienza nei piccoli centri funziona, produce benefici reciproci, e si rivela uno degli strumenti più intelligenti per affrontare il fenomeno migratorio in modo ordinato e sostenibile.
A fronte dei grandi hub d’emergenza, spesso sovraffollati e disumanizzanti, l’accoglienza nei comuni sotto i 5.000 abitanti ha dimostrato di ridurre i conflitti, aumentare le possibilità di integrazione e facilitare percorsi di autonomia lavorativa. Un recente rapporto di Legambiente e Openpolis mostra che i territori coinvolti in progetti SPRAR e SAI hanno tassi di occupazione degli immigrati più alti della media e minore incidenza di tensioni sociali.
Ma non è solo una questione umanitaria: è anche un tema economico e demografico. I piccoli comuni italiani – oltre 5.500 su circa 8.000 totali – stanno vivendo un lento, silenzioso declino. La denatalità, l’invecchiamento della popolazione, la fuga dei giovani verso le città hanno lasciato territori svuotati, case chiuse, scuole a rischio chiusura. L’arrivo controllato di famiglie straniere, se ben gestito, può contribuire a ripopolare aree marginali, rilanciare attività economiche, garantire servizi essenziali.
Numerosi sindaci – soprattutto nel Centro e Sud Italia – lo ripetono da anni: accogliere non significa subire, ma scegliere un modello di sviluppo diverso, più umano e più resiliente. Ed è in questi contesti che molte micro e piccole imprese, come quelle rappresentate da Unimpresa, riescono a trovare nuova forza lavoro, nuovi mercati locali, nuovi consumatori. Perché la vera inclusione non si misura solo nei corsi di lingua o nei documenti ottenuti, ma nella quotidianità condivisa: nei laboratori artigianali, nei campi coltivati, nei cantieri, nei negozi, nei bar, nelle scuole.
È tempo, allora, di rivedere le politiche di accoglienza su scala nazionale. La logica emergenziale non è più sostenibile. Servono risorse strutturali, procedure snelle, una cabina di regia multilivello tra Stato, Regioni e Comuni. Soprattutto, è necessario potenziare il sistema di accoglienza integrata: non solo dare un tetto e un pasto, ma offrire formazione linguistica, accompagnamento legale, orientamento al lavoro, coinvolgimento sociale.
Eppure, ogni volta che si prova a difendere questo modello, si viene accusati di ingenuità, se non di complicità. Ma la realtà è più forte degli slogan. L’accoglienza diffusa non è un’utopia buonista, ma una pratica concreta, radicata nel territorio e nella tradizione civica italiana. Si fonda sulla conoscenza reciproca, sulla prossimità, sul senso di comunità. In fondo, è ciò che distingue l’integrazione autentica da quella imposta: il tempo, la relazione, il rispetto.
In questa dimensione esiste una leva strategica anche per lo sviluppo economico. Le nostre imprese non vivono nei grafici di Bruxelles, ma nei vicoli di Matera, nei campi del Sannio, nei laboratori del Casentino, nelle botteghe del Monferrato. E sanno che senza coesione sociale non c’è competitività. Un territorio abbandonato, diviso, impoverito culturalmente, è un territorio che non attrae investimenti, non innova, non cresce.
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